O mia bela Madunina made in Cina

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E’ proprio così, stiamo assistendo a un cambiamento epocale, campanello d’allarme che risuona frastornante in un silenzio, ancora più assordante, delle mancate reazioni da parte nostra. Che ci piaccia o no, il calcio rappresenta uno tra gli indicatori della situazione economica di un paese e di una città. Ora, con il movimento dei grandi fondi globali, questo dato risulta falsato e meno attendibile. E’ innegabile però che il possesso di una squadra di calcio, sia un buon modo per valutare la ricchezza del territorio. Non è un caso che l’Europa del pallone, Germania esclusa, sia sempre più governata da fondi di matrice extracontinentale. Per quanto riguarda lo stivale, resistono Torino, con due squadre totalmente in mano a capitali italiani, Napoli, Firenze, Palermo, Verona, Cagliari e Genova. Roma invece è per metà americana, Bologna lo è del tutto e la Milano del calcio è sempre più con gli occhi a mandorla. Cosa sta succedendo?
Questa tendenza dimostra che, purtroppo o per fortuna, non possiamo più permetterci certi lussi. Per quanto riguarda Milano, è ormai noto che il governo di Pechino abbia intrapreso una politica di investimento massiccio per far fronte allo scadente appeal della nazionale di calcio Cinese, concomitante con una netta disparità dei piazzamenti olimpici degli ultimi anni tra sport individuali e sport di squadra degli atleti orientali. L’interesse del governo per il ruolo del calcio nella cultura del popolo cinese è clamorosamente cresciuto negli ultimi due anni e ha spinto il presidente Xi Jinping a formulare un vero e proprio piano governativo per diffondere il pallone nelle scuole primarie e per potenziare strutture e squadre di calcio all’interno del paese per poi espandersi in tutto il mondo.
Motivati dagli incentivi del governo i grandi investitori impegnano ingenti capitali per perseguire questo obiettivo: costruzione di campi da gioco, incremento della pratica nelle scuole e acquisto di calciatori forti per la China Super League, il massimo campionato.
A questo punto ci si muove su scala globale per esportare il brand Cina in tutto il pianeta e Milano ne è una lampante dimostrazione. Il capoluogo lombardo, teatro di vittorie calcistiche e culla di campioni da stropicciarsi gli occhi non può più concedersi il pallone a certi livelli. Le famiglie facoltose italiane, grazie alle quali il giocattolo ha funzionato per tutti questi anni, non hanno più la forza per andare avanti e non trovano, nel nostro paese, dei sostituti all’altezza. E come sta succedendo per i negozi, i bar, i ristoranti, le piccole e ormai anche le grandi imprese, ci si arrende alla liquidità d’oriente mollando la presa su quelle che, fino a un decennio fa, erano le nostre certezze. Eppure degli esempi ci sono: Juventus, Udinese e Sassuolo, stanno in piedi e fatturano anche grazie agli stadi di proprietà; Napoli e Fiorentina hanno i conti a posto, delle presidenze solide e possono anche permettersi qualche campione. Non si possono ricalcare questi rari modelli di salute?
Sicuramente la mentalità all’italiana rende lento e assai tortuoso il percorso per realizzare uno stadio privato e la gestione spesso anacronistica delle società stesse ha generato una progressiva involuzione del calcio nel nostro paese. Investimenti quasi nulli sui settori giovanili, scarsa valorizzazione del brand e del merchandising e scomparsa delle bandiere, motivo per cui una volta si andava allo stadio.
Così però non si sogna più, la passione per la quale si torna bambini e ci si abbraccia la domenica non ha più senso.
Merito dei piani governativi altrui o colpa dell’inadeguata gestione di casa nostra?