Ci avevo appena pensato. Un sogno e al tempo stesso uno stimolo ad iniziare una nuova avventura per toccare con mano qualcosa che chi come il sottoscritto pratica lo sci nautico può infatti solo sognare: Paralimpiadi. Tornando al primo amore dello sci alpino che per divertimento non ho mai abbandonato, stavo facendo passi da gigante. Gigante era anche la specialità che avevo scelto per i campionati italiani sulla neve del Trentino Alto Adige.
Ma a pochi giorni dalla mia nuova prima volta è stata proprio una porta da gigante che mi ha distrutto una spalla costringendomi a mettere in pausa i miei sogni agonistici. Una brutta giornata iniziata bene. Mi sono svegliato fischiettando come sempre. Iniziavo tre giornate di allenamento per crescere ed entrare nel circuito delle gare che contano. In treno fino a Torino e da lì in auto verso la montagna, ad Ala di Stura. Con Elena, la mia guida, discutevamo della nostra tecnica e dei punti da migliorare. Adoro quel momento perché c’è una sostituzione netta dal Daniele fisioterapista, che dà spiegazioni, cerca il meglio per gli altri e risponde a mille telefonate, al Daniele atleta che diventa egocentrico, quasi egoico che cerca la soluzione migliore per sé e basta. Infine in pista. Concentrati, cattivi e affamati, per migliorarsi curva dopo curva. Anche tra i pali si andava bene, qualche tentennamento perché dopo 20 anni di sci in libertà, mi vedevo per la prima volta costretto a seguire un percorso preciso, scandito dalle porte. E proprio un palo, in una curva verso sinistra mi ha fermato: leggera derapata per non perdere la traiettoria, lo sci sinistro si inchioda sul palo, si sganciano gli scarponi e il mio corpo, già proiettato verso quella curva sbalza verso sinistra e si arresta cadendo sulla spalla destra. Dolore atroce da subito. In cuor mio mi ripetevo che era solo una lussazione. Potevo aspettare qualche minuto e rimettermi gli sci per arrivare a valle e decidere sul da farsi. Invece no. L’ho fatta grossa! Il dolore era più intenso di quello che avevo provato al goal di Lulic in un Roma Lazio del maggio 2013: e quindi toboga, seggiovia, ambulanza, pronto soccorso e sala operatoria. Tutto in 6 ore senza un farmaco, con un male da svenire, con l’alternarsi tra lacrime di sconforto e sorrisi da dare a Elena (per non innescare quel meccanismo che detesto nel quale se mi son fatto male la colpa è della guida) e a tutti gli infermieri e ortopedici che si alternavano attorno a me su quel letto, contorcendomi dal dolore e pure cieco!
“Dottore – faccio io – non è che già che siamo in sala operatoria chiamiamo anche l’oculista così prendiamo due piccioni con una fava?”
Si rompe così il ghiaccio con lo staff dell’ospedale di Ciriè e a quel punto partono le telefonate: a casa a mamma e papà che pensavano li prendessi in giro e un’altra agli ortopedici coi quali lavoro tutti i giorni.
“Che faccio? – chiedevo dalla barella – devi operarti: l’omero è lussato e pure rotto.”
Il chirurgo è stato super: in 3 ore e mezza mi ha staccato tutti i tendini, ha ricomposto per quanto possibile il puzzle che era diventata la mia testa dell’omero e meticolosamente riattaccato i tendini alla parte superstite della mia spalla, ricucendo il tutto con una trentina di punti. Adesso c’è da imparare a gestire oggetti e spazzi senza vederli e con una mano sola, la spalla fa male tuttora; ho dei vantaggi però: fantastici colleghi che sapranno come curarmi e ancora più voglia di scrivere e di sognare.
In questa condizione sto apprezzando la vittoria di infilarmi da solo una maglietta anche più del mondiale di calcio degli azzurri nel 2006!