La morte di Muhammad Ali è solo un cambiamento di stato della materia. Il suo corpo e la sua anima non sono più sulla terra, posto in cui noi tutti viviamo; il battito del cuore dei suoi ideali, però, è ancora rumoroso tra noi. Dal punto di vista clinico si tratta di decesso biologico, accompagnato però da un’immortalità più ingombrante, che mai lascerà l’umanità. Muhammed Ali è stato il primo “sportivo parlante”, innovativo a tal punto da capire che, attraverso le imprese da atleta si potevano promuovere degli ideali ben più edificanti delle vittorie e delle medaglie, gridandoli a tutti, nessuno escluso.
E lui lo ha fatto, amando in egual misura i due personaggi che egli stesso racchiudeva: uno alimentava l’altro e viceversa, in ogni occasione che sapeva trasformare in evento, sul ring e nella vita. Il Muhammed agonista si nutriva della voglia di rivalsa per generare la forza nel combattere sul ring: tecnicamente mostruoso, dotato di una dote innata. Allo stesso tempo rabbioso, capace di sublimare il proprio mal contento verso l’ingiusto, portando nei propri incontri quella cattiveria indispensabile per un pugile.
Ogni match di Ali era il match del secolo perché, oltre ad essere perfetto come atleta, è stato ambasciatore di concetti ben più profondi di una lotta contro un avversario.
Questo è l’altro Muhammad: uomo di colore potente e vincente in un’era in cui la popolazione nera si sentiva depauperata di ogni potere, frustrata dal volere della “prima classe”, quella dei bianchi.
Come oggi uno sponsor si serve di un atleta per pubblicizzare un prodotto, Mohammad Ali sfruttava se stesso per diffondere i diritti civili dei quali è un’icona ancora vivente.
I pugni agli avversari erano mostruosamente efficaci perché scaturivano da quella sensazione di ingiustizia che gli scorreva nelle vene; quella sensazione che lo ha spinto a cambiare nome da Cassius Clay a Muhammad Ali, da schiavo a condottiero, da sportivo a mito universale. Rifiutava la guerra da combattere con le armi e proprio questo sottrarsi alla decisione del governo americano, che lo voleva tra i soldati nel Vietnam, gli è costato cinque anni di prigionia e inattività sportiva. Le battaglie coi guantoni e con le parole erano invece il suo habitat, la sua mission.
Alla ripresa dopo la galera frutto della contraddizione Americana, si è dimostrato comunque il più forte, sostituendo la rapidità di gambe e la propensione all’attacco, con la capacità di difendersi e incassare, per poi reagire, esplodere, vincere. Il mach a Kinshasa del 1974 è l’espressione forse più tangibile di Alì: incassava i colpi dell’avversario nelle prime riprese per poi ribaltare l’incontro servendosi della sua rapidità e delle sue formidabili abilità tecniche.
Allo stesso modo, fuori dal ring, subiva il dolore per le inequità raziali e lo elaborava, restituendo al mondo e ai suoi fratelli impegno e dedizione per il rispetto dei diritti umani, troppe volte calpestati ingiustamente.
Il destino, nelle vesti di un morbo di Parkinson, si è ripreso uno dei simboli più concreti della potenza dello sport. Ha richiamato il corpo, la voce e la presenza fisica. A noi resta l’essenza, l’energia e l’imponenza indiscussa di quello che Cassius e Muhammad ci hanno regalato con ardita convinzione attraverso estenuanti combattimenti coi guantoni e infinite battaglie a mani nude. Una persona troppo grande per avere un nome solo ed un personaggio solo.
Un eroe che ha dato un significativo contributo affinché l’America arrivasse ad avere un presidente nero o più semplicemente, che una persona di colore possa prendere un taxy a New York. Cassius e Muhammad: grazie di tutto.