Doveva essere l’ultimo giorno, con due sole finali: il rugby e il volley. Il 9° posto nel medagliere l’Italia l’aveva già messo in cassaforte. Tra Australia e Stati Uniti a mettersi al collo la medaglia sono i primi al termine di una partita esaltante giocata senza risparmio davanti ad un gran pubblico diviso tra tifosi americani e tifosi australiani rinforzati dal pubblico di casa. Tutto bene e quasi normale. Ma di ordinaria amministrazione alle Paralimpiadi non c’è niente. Tanto meno a Rio dove ogni variante o richiesta diventa un’avventura. La fine tragica del corridore iraniano Bahamn Golbarnezhad, tra l’altro marito di una giocatrice di basket in carrozzina, metteva qualche curiosità sullo stato d’animo dell’Iran di sitting volley nel giocarsi la medaglia d’oro con la Bosnia il giorno dopo la perdita di un amico partito con loro, con lo stesso sogno delle Paralimpiadi di Rio che diventava realtà. La bandiera a mezzasta e la foto di in mano al capitano durante l’inno erano già risposte. Tutti insieme si radunano a centrocampo, tutti insieme dopo l’inno nazionale con gli occhi lucidi si stringono in un cerchio per parlarsi e lanciare un urlo di solito di carica, oggi di dolore. Ecco, proprio perché tutti insieme, uno di fianco all’altro, nella squadra iraniana c’è qualcosa anzi, qualcuno che è si con i compagni ma una quarantina di centimetri più in alto. L’inno lo ha ascoltato appoggiandosi a chi gli stava vicino a mò di bastone perché Morteza Mehrzadselakjani in piedi ci sta a fatica, forse anche per il fatto di dover tener dritti i 246cm della sua statura. I campo le due squadre si guardano attraverso la rete. Lui compagni e avversari li guarda da sopra la rete dove la sua manona arriva a schiacciare da quasi due metri. Alla fine l’Iran ha la meglio e la dedica è per l’amico che come loro sognava la medaglia più bella delle Paralimpiadiche.
Un amico che non c’è più.