Cara Rio mi manchi già. Prima di conoscerti avevo mille preoccupazioni per come sei messa riguardo soprattutto alla sicurezza. Poi è bastato arrivare da te qualche giorno prima dell’inizio della Scuola delle Paralimpiadi per capirti un po’ di più. Prima cosa: oh ma quanto sei grande? Il tormentone ad ogni richiesta riguardo a distanza o località era: mezz’ora, tre quarti d’ora, un’ora, con denominatore comune braccia che si aprono e l’immancabile “dipende dal traffico”.
Poi si è aperta la Scuola delle Paralimpiadi e qualsiasi altra problema è diventato secondario. L’idea prima di partire era: a due ore d’aereo da Bahia e San Paolo, a quattro dalle leggendarie cascate di Iguazù, stacco un paio di giorni, anche tre, per consumare vista e macchina fotografica. Idea messa via subito per orari, costi ma soprattutto perché niente e nessuno potevo trascurare delle prime Paralimpiadi sudamericane.
Tutto comincia nel cuore del calcio brasiliano che fino dai mondiali del 1950 fino al 2007 poteva accogliere 200.00 persone: il Maracanà. Dal 2013 è un salotto nuovo che ne contiene poco meno di 80.000. In pratica ho messo piede sul campo dove nel 1950
si è consumata una tragedia sportiva con la sconfitta del Brasile nella finale con l’Uruguay e dove nella finale del mondiale del 1970 il Brasile dei marziani rifilò quattro caipirinhe all’Italia degli umani. Una partita, quest’ultima, che ho visto in bianco e nero alla tv, di notte, nella sala pranzo della “Pensione Paradiso” di Jesolo dove qualche giorno prima avevo visto Italia- Germania 4-3 vivendo indirettamente da bambino il mio primo dramma quando, al gol decisivo di Rivera, un turista tedesco seduto alle mie spalle diede una manata sul tavolo girandosi di 180°, senza ricordarsi di aver lasciato nello stesso punto la tazzina dell’ennesimo caffè. Anteprima assoluta ed esclusiva di “Profondo Rosso”, film che sarebbe uscito solo cinque anni più tardi (in realtà nel 1970 si giocava in Messico ma in quella Pensione di Jesolo non so per quale motivo dicevano tutti “stanote in tv ghe se il Maracanà”…a quei tempi i bambini non avevavo facoltà di parola…).
Che spettacolo la cerimonia d’apertura delle Paralimpiadi al Maracanà!
Arrivando allo stadio tra un fiume di gente lo sguardo va in alto per vedere la prima volta dal vivo uno dei presepi incastrati sulle colline. Presepi drammatici le “favelas”, dai quali
è bene stare alla larga, non fosse altro perchè ci stanno alla larga anche le forze dell’ordine. Sul Maracanà si affaccia quella di Mangueira. Abitanti ufficiali 20.000, in realtà almeno tre volte tanto. Si accendono i riflettori, il cuore va oltre ogni tracciato: entra l’Italia.
Davanti a tutti Martina Caironi che sventola la bandiera tricolore, con il pubblico arrivato da ogni parte del mondo ad applaudire l’interminabile sfilata dei 4350 atleti di 176 Paesi con la novità delle due squadre composte una da rifugiati politici e l’altra da atleti che non riconoscono i governi dei rispettivi Paesi. Dall’accensione del sacro fuoco di Olimpia emozioni ad ogni ora e ad ogni angolo di strada.
E’ stato bello iniziare la giornata con il footing sulla ciclabile infinta del lungo mare di Barra Tijuca, divertente distrarsi sul bagnasciuga ritrovandosi a mollo grazie ad una onda anomala ma solo per chi si perde nei suoi pensieri guardandosi in giro.
Bello dare una mano ad una nonna rimessa seduta sulla sua carrozzina una volta scesa dal taxi. Ricevo un sorriso al quale mi viene da rispondere con una pronuncia improbabile “Bom dia!”. Proseguo oltre ma poi devo rigirarmi per forza perché la nonna mi risponde pronta con una cantilena con vago accento ligure che mi arriva come una poesia: ” Bom dia para você meu irmão”, buon giorno a te fratello mio.
Neanche un giorno che son qui e piango già!
La differenza la fanno sempre ed ovunque le persone. I problemi del Brasile si vedono tutti ma la gente, magari non quella costretta a sopravvivere ma quella che vive si, regala sorrisi e disponibilità. Se sei italiano ancora di più perché alla domanda: “italiano?”, rispondendo “si” segue sempre un sguardo o parole di ammirazione ed invidia.
Prima lezione: sempre e comunque, il proprio Paese, con pregi e difetti, prima di tutto si ama.
Iniziano le gare, impossibile seguire tutte quelle che si vorrebbero sia per la concomitanza che per le distanze tra le diverse sedi.
Il Sambodromo dove si celebra il Carnevale più famoso del mondo, è a tre quarti d’ora di navetta dal Parco Olimpico, proprio sotto la Favela di Santa Teresa, è la sede del tiro con l’arco. Sempre a tre quarti d’ora di navetta dal Parco Olimpico c’è Pontal, dove sfrecciano biciclette e handbike. Tempi più brevi o più lunghi…dipendono dal traffico e dalla chiusure delle strade senza preavviso.
La vela me la devo dimenticare. Il kayak si può fare ed alzandomi all’alba ci arrivo.
In regalo mi ritrovo di fronte la sede della squadra che com’è scritto sul gigantesco murales che delimita il parcheggio: “Flamengo, il club più amato del mondo”.
Stella del Flamengo, oggi vera e propria leggenda vivente amato anche dai tifosi avversari, è Arthur Antunes Coimbra detto Zico. In cima alla scalinata delle seda c’è la sua statua ad altezza naturale. E chi lo incontrerà mai il Zico in carne ed ossa? Scatta il selfie con quello in bronzo. Poi via di corsa sotto un sole che cuoce il mio unico neurone già malandato, al di là della strada, sullo specchio d’acqua di un colore improponibile di Lagoa ci sono le gare di Veronica “Yoko” Plebani ambasciatrice dell’associazione art4sport
e Federico Mencarella dell’Asbi.
Entrambi in finale del kayak, entrambi splendidi protagonisti davanti alle rispettive famiglie sedute a soffiggere in tribuna. Ritorno verso casa improponibile perché la navetta è data per dispersa. Cotto e non mangiato decido: si va a Casa Italia e per arrivarci entro mezzanotte si va col taxi. Finalmente arrivo a Casa Italia e chi mi trovo sul momento di andarsene ? Nooooo, non ci posso credere…Zico!
Alt, fermi tutti, di qui non esce nessuno! “Veramente dovrebbe andare via” dice chi l’accompagna. Non se ne parla. Mi parte l’ignoranza e in un portoghese stile “Il barbiere di Rio” lo ricopro di elogi. Zico ride e si ferma disponibilissimo.
“Troppo buono” mi dice. “Buono si ma non Gentile” gli rispondo.
Scoppia una risata generale e la Signora di Casa Italia Sabrina Marano, regina di uno staff impareggiabile, mi scatta non una foto ma “la foto”. Un solo scatto!
La devo vedere affinché non ci sia la minima imperfezione nell’immagine che mi giocherò per il resto della vita terrena con il carioca padano Marco Caccianiga.
Si ma non si può liquidare Casa Italia in due righe. L’Italia è l’unico Paese che venendo via da Rio ha lasciato un segno del suo passaggio.
Un segno concreto di amicizia solidarietà. Dove per una decina di giorni il Comitato Italiano Paralimpico ha accolto e festeggiato i suoi ospiti, atleti medagliati e non, prima c’era una sorta di oratorio fatiscente per i bambini più poveri del quartiere e della vicina favela.
Oggi i bambini possono trovare un “Recreio dos Bandeirantes” rimesso a nuovo per giocare e studiare con un minimo di serenità.
Una ristrutturazione voluta dal presidente del Cip Luca Pancalli e realizzata in accordo con il Vaticano e la Curia locale. La differenza la fanno sempre e comunaue le persone.
Cara Rio, quando vuole l’Italia sa essere un esempio. Quando vuole.
Quelle che sembravano Paralimpiadi sopportate sono state invece amate dalla gente comune presente in gran numero al Parco Olimpico dove c’erano il calcio, il basket, il rugby, la scherma, il tennis, il tennis tavolo, le bocce, il ciclismo su pista e il nuoto.
Incontri e momenti: tanti, ovunque, belli, ricchi e per sempre.
Anche solo nella piazza virtuale che fa da filtro tra l’inaccessibile villaggio olimpico
e l’esterno, dove alla vigilia della cerimonia di inaugurazione ogni Paese ha celebrato il suo alzabandiera. Da lì passava il mondo intero. Lì ho incontrato l’americana plurimedagliata di nuoto Coan McKenzie. Sul podio della prima delle sue tre medaglie d’oro Koan sorrideva come la bambina più felice del mondo.
Un sorriso che si trasforma in un pianto dirotto non appena parte l’inno nazionale americano e sul gigantesco maxi schermo dell’Acquatica Center appare il suo viso in primo piano. Incontro Coan in compagnia di tutta la sua famiglia arrivata fin qui per starle vicino. Coan è una donna di 21 anni che vive nel corpo di una bambina.
Alla nascita le è stata diagnosticata una osteogenesi imperfetta, più semplicemente la malattia delle ossa fragili. Primo consiglio ai genitori per lei fu il nuoto.
Coan impara in fretta a nuotare e nuota sempre meglio fino ad entrare nel 2012 nella squadra paralimpica degli Stati Uniti festeggiando il suo esordio in campo internazionale nel 2015, vincendo una medaglia d’argento ai mondiali. Alle sue prime paralimpiadi ha vinto tre medaglie d’oro ed una d’argento. Nel suo Paese ha fondato un’associazione che si occupa di bambini con disabilità e organizza incontri informativi ed eventi benefici.
Ogni atleta è arrivato a Rio con la sua storia e i suoi sogni. Un sogno l’aveva anche il corridore iraniano Bahman Golbarnezhad, 48 anni, una moglie e un figlio piccolo.
Una famiglia distrutta dal dolore perché Bahman non c’è più. Ha perso la vita cadendo nella corsa in linea inseguendo il sogno di vincere una medaglia. Il giorno dopo, la squadra dell’Iran di pallavolo da seduti gioca per la medaglia d’oro e la vince, davanti ad un pubblico che applaude l’inno nazionale iraniano, con la bandiera a mezz’asta, con un giocatore iraniano in piedi anche se a stare in piedi fa una gran fatica e quindi deve appoggiarsi ad un compagno. Lui è Morteza Mehrzad ed il suo problema maggiore è che deve sostenere i 247 centimetri della sua altezza che ne fanno il secondo uomo più alto del mondo.
Sguardo triste di suo, inarrivabile per ogni muro avversario, urla al cielo la gioia del punto che vale la medaglia più preziosa quasi volesse farlo arrivare all’amico volato via.
Che storie sanno regalare le Paralimpiadi! A vincere l’oro dei 100 metri sulla stessa pista dove poche settimane prima ha celebrato le sue ultime medaglie il totem Usai Bolt è stata Martina, la variopinta Martina Caironi, detentrice del record del mondo e già vincente nella stessa volata a Londra 2012. Quella prima vittoria di Martina il Caporal Maggiore Monica Contraffatto la vide in televisione dal letto d’ospedale dov’era ricoverata per l’amputazione della gamba destra in seguito ad un attacco subito in Afghanistan.
Vedendo la felicità di Martina, amputata come lei, gli scattò la scintilla per puntare a vivere anche lei la stessa emozione. Allo stadio olimpico di Rio, sul terzo gradino del podio della gara dei 100 metri vinta da Martina Caironi c’era lei, il Caporal Maggiore Monica Contraffatto con al collo la medaglia di bronzo. Sempre sullo stesso podio alla sinistra di Martina, la tedesca Vanessa Low. Splendida. Vanessa a sedici anni perde l’equilibrio e finisce sui binari di un treno in arrivo. Amputata di entrambe le gambe, al suo esordio alle Paralimpiadi corre veloce e nel salto in lungo vola più lontana di tutti al pari del suo connazionale Markus Rehm che con una gamba e una lama è arrivato all’oro saltando 8,21.
Che belle le paralimpiadi illuminate dalle 39 medaglie del’Italia.
Che belle le storie della squadra di nuoto composta dalla cifra record di 21 atleti, 7 dei quali componenti del “Progetto AcquaRio” della Polha Varese con in testa Federico Morlacchi sempre più stella del nuoto paralimpico mondiale.
Protagonisti assoluti con 13 medaglie, condite da record italiani e finali in serie.
La Varese più bella dell’Italia più bella che il mondo ci invidia e prende a modello.
La Varese più bella dell’Italia più bella alla quale non si vuole bene abbastanza.
Lo scricciolo Martina Rabbolini raggiunta da mamma, papà e fratellino. Il totem Alex Zanardi, l’ingegner Podestà, l’esordiente Mazzone, gli eterni Porcellato e De Vidi, la napoletanissima Assunta Legnante, l’italianissimo cubano Oney Tapia, al pari di ogni altro componente di una rappresentativa capace di superare i risultati di Londra 2012. E infine Bebe, ormai lanciata nell’orbita paralimpica.
Due medaglie ricche di significati e di aspetti. Quella d’oro ha chiuso il cerchio della sua seconda vita.
Da bambina ripartita da un letto d’ospedale dove senza gambe e senza braccia ha sconfitto la morte rimbalzando ai suoi genitori la domanda su che vita aspettarsi per quell’angelo biondo di 12 anni. Ora ma non da ora Teresa e Ruggero lo sanno bene. Hanno generato un vulcano che ha problemi solo quando è costretto a rallentare.
Bebe la medaglia d’oro la voleva e l’ha inseguita con determinazione, applicazione e cattiveria. La medaglia d’oro la voleva e l’ha presa svuotandosi di energie e di voce.
La medaglia di bronzo con la sua squadra la voleva perché “siamo fisicamente e tecnicamente meno dotate delle altre ma a differenza delle altre noi siamo delle bestie affamate!”, dirà dopo aver recuperato uno svantaggio di tre stoccate, tra un guasto tecnico e l’altro, spazzando via l’avversario di turno che divideva il trio azzurro dal bronzo. Una gara andata avanti anche dopo la premiazione con nonne e mamme che reclamavano Bebe chi per un selfie, chi per un abbraccio, chi per dirle “ti voglio bene”, chi per offrirle in braccio il proprio figlio o nipote come si vede fare solo con il Papa. Le immagine tra le immagini delle medaglie del nuoto della piscina è quella della squadra unita a bordo vasca per ogni gara e ogni premiazione dov’è protagonista qualcuno di loro, quella di Federico Morlacchi che consacra con l’oro il suo talento e quella meno notata ma non meno importante della tredicenne atleta della Turchia Sevilay Ozturk che arriva per il riscaldamento pre gara. Sevilay si sveste si tuffa
in acqua e dopo qualche vasca esce dall’acqua per ritornare nell’angolo dove ha lasciato scarpe, calze e tuta.
Si siede per terra guardando a lungo nel vuoto, sorseggiando un integratore, senza cambiare espressione. Poi si rimette la tuta, le calze, le scarpe e rientra nello spogliatoio. Tutto normale. Se non fosse che Sevilay non ha le braccia. Fa tutto con i piedi, compreso lo sfilarsi la cuffia e gli occhialini. Occhialini che anche un’atleta cinese suo vicino di corsia si aggiusta per bene con il piede prima del suo turno di riscaldamento. Dall’Acquatic Center allo Stadio Olimpico dove il velocista non vedente Felipe Gomes arriva sul podio e si rifiuta di mettere al collo la medaglia d’argento infilandola in tasca. Motivo: la sua guida non riceve la medaglia in quanto sostituto della guida titolare infortunatasi prima della finale. “Se oltre alla mia guida, non la mette al collo anche la persona che stasera l’ha sostituita guidandomi al traguardo beh, allora non la metto neanch’io!”, e anche la mascotte finisce nell’elastico dei pantaloni della tuta dietro la schiena. Che privilegio poter vivere da cantastorie le Paralimpiadi. Un privilegio che implica il dovere di condividerle.
Sui social la lista dell’ipocrisia si è moltiplicata. Qualcuno punta il dito su presunte mancanze dei media, altri discutono l’ammontare dei premi relativi alle medaglie, la metà rispetto agli olimpici, altri ancora li contestano, forse non sapendo che in alcuni di quei Paesi dove i premi non sono previsti, ad esempio in Gran Bretagna, gli atleti con disabilità ricevono un vero e proprio stipendio che li qualifica come professionisti. Qualcuno ed altri, per i quali tra una settimana le discipline paralimpiche finiranno in una scatola sigillata a tempo con scadenza settembre 2020, quando cominceranno quelle di Tokio.
Qualcuno ed altri che quel dito puntato dovrebberlo piegarlo verso se stessi per chiedersi cosa fanno in prima persona per promuovere lo sport paralimpico.
Parlare senza conoscere, giudicare senza informarsi, delegare anzichè impegnarsi e commuoversi a scadenza quadriennale è roba da diversamente abili.
Se proprio si vuol essere protagonisti sui social si dica grazie a chi per lavoro o per passione si impegna facendo la sua parte.
Grazie ai tecnici, alle diverse figure professionali, ai volontari, agli atleti per i quali l’eventuale premio in denaro sarebbe lordo e mai pari agli sforzi, alle spese vive e alle rinunce. Piaccia o meno, in campo paralimpico l’Italia è un modello per tanti, Paesi con ben altra cultura e classe politica si domandano come sia possibile che l’Italia più bella si presenti e Rio con poco più di 100 atleti portando a casa 10 medaglie d’oro con Federico Morlacchi (nuoto), Francesco Bocciardo (Nuoto), Assunta Legnante (Atletica), Luca Amazzone (Handbike), Vittorio Podestà (Handbike), Alessandro Zanardi (Handbike), Beatrice Vio (Scherma), Paolo Cecchetto (Handbike), Zanardi/Mazzone Podestà (Handbike), Martina Caironi (Atletica). 13 d’argento con 2 Francesco Bettella (Nuoto), 3 Federico Morlacchi (Nuoto), Michele Ferrarin (Paratriathlon), Martina Caironi (Atletica), Cecilia Camellini (Nuoto), Giulia Ghiretti (Nuoto), Oney Tapia (Atletica), Alberto Simonelli (Tiro con l’arco), Luca Amazzone (Handbike), Alessandro Zanardi (Handbike), Arjola Trimi (Nuoto). 15 medaglia di bronzo con Giovanni Achenza (Triathlon), Giulia Ghiretti (Nuoto), Vincenzo Boni (Nuoto), Amine Kalem (Tenistavolo), Mijno/Airoldi (Tiro con l’arco), Giancarlo Masini (Ciclismo), Francesca Porcellato (Handbike), Efram Morelli (Nuoto), 2 Francesca Porcellato (Handbike), Fabio Anobile (Ciclismo), Vio/Trigilia/Mogos (Scherma), Alvise Devidi (Atletica), Andrea Tarlao (Ciclismo), Monica Contrafatto (Atletica).
A queste 39 medaglie vanno aggiunte tutte le richieste che sono già arrivate e arriveranno al Cip o ad ogni altra associazione per promuovere, sostenere, sponsorizzare, praticare le discipline paralimpiche. Prima di chiedere agli altri ognuno faccia il suo per essere utile agli altri. Grazie cara Rio. Grazie per aver ospitato il mondo che amo, per avermi presentato il tuo Cristo Redentore, il Pan di Zucchero per guardare da lontano la Favela di Vidigal, Ipanema, Urca, Pontal.
Grazie per i due passi dove Jobim e Vinicius de Moraes sorseggiando whisky e mangiandosi con gli occhi la famosissima “garota” Helôísa Pinheiro, tutt’ora viva e vegeta, scrissero “…ela menina que vem e que passa, no doce balanço, a caminho do mar…que quando ela passa o mundo inteirinho se enche de graça e fica mais lindo por causa do amor”.
Nei giorni trascorsi da te insieme a compagni di viaggio ideali ho imparato, ho conosciuto, ho riso, ho pianto, camminato tanto e dormito poco.
Anch’io cara Rio sono tornato a casa con la mia medaglia.
Ma al contrario degli atleti paralimpici non ho faticato per averla.
Più semplicemente me l’ha regalata il fotografo Augusto Bizzi.
E’ l’immagine di un viso sorridente sul quale è incisa la vita, con il particolare di un braccialetto rosso che urla in faccia alla morte. Due storie in una, tra le tante che anziché star seduti e chiedere ognuno di noi deve sentire il dovere di andare a cercare per condividerle affinché si sia sempre di più a poter dire con orgoglio: nessuno è più ricco di noi.